martedì 16 dicembre 2014

IL PRINCIPIO DI COOPERAZIONE

Rifiutare la competizione.
Quest'idea sembra una pura sciocchezza. Come si può prescindere dalla coazione universale a competere? La cosa risulta semplicemente impensabile. Eppure, la chiave di ogni vera svolta verso un'economia democratica, che sia capace di dare sicurezza alle condizioni di vita di tutti e sia compatibile con il mondo naturale, sta nel passaggio dal principio di competizione al principio di cooperazione.
Trattandosi di un cambiamento molto profondo, che sfida le ovvietà della mentalità corrente, bisogna abituare con gradualità lo sguardo a questa idea.
Se si comincia a pensare diversamente, poco a poco si aprono scenari inediti e concreti.

Il primo passo sta nel leggere l'evidenza: la crisi, la fame, i cataclismi sociali e i frutti velenosi dell'aggressione alla natura dimostrano che la civiltà della competizione è dannosa, insostenibile e ingiusta perché, come un idolo sanguinario, esige i sacrifici umani.
Essa si fonda infatti sul presupposto che debbano sempre esserci quelli che sono sconfitti, altrimenti non c'è progresso. Ma se l'economia deve garantire le basi materiali della società, scongiurare la miseria, rispettare la libertà di chiunque e servire il bene comune, come dice la Costituzione all'articolo 41, perché si deve alimentare l'interesse al fatto che ogni volta ci sia chi resta travolto?

Nella logica della competizione si va avanti solo se c'è chi rimane indietro.
Al contrario, nella logica dell'economia di cooperazione si avanti solo se si procede come comunità nazionale e, più ampiamente, come umanità.
Si esce dalla crisi solo se si esce insieme dalla crisi.
E infatti nella gestione dei servizi - dalle scuole agli ospedali, dai trasporti agli enti locali - non ha senso una gara per cui alla fine si constata che alcuni funzionano meglio e altri peggio.
Il fine vero sta nel fare in modo che tutti gli organismi di servizio raggiungano le migliori prestazioni possibili perché la giusta risposta ai bisogni dei cittadini è un diritto che deve valere ovunque per chiunque.

Nella mentalità corrente non si riesce a concepire un miglioramento che sia condiviso e non selettivo, come se la migliore qualità di una scuola, ad esempio, debba essere misurata dal fatto che un'altra scuola offre servizi di livello inferiore.
La qualità dei servizi va invece misurata dal criterio che individua quale sia la migliore risposta ai bisogni che i servizi stessi devono assicurare.
Dopo di che bisogna sviluppare una politica di adeguamento di ogni struttura di servizio a quel livello di risposta.

Se d'altra parte ci riferiamo all'impresa privata, la possibilità di orientarsi al principio di cooperazione comincia ad apparire meno assurda di quanto sembri a prima vista non appena si abbandona la pratica sciagurata della delocalizzazione.
Essa sottrae il lavoro alla comunità territoriale da cui un'azienda proviene non per portare il lavoro altrove, ma per perpetuare all'infinito lo sfruttamento lì dove i diritti umani e sindacali sono negati.
Non si vuole vedere che nella delocalizzazione si attua questa trasformazione: si toglie il lavoro da un territorio e, mentre si impianta la struttura produttiva all'estero, esso è già diventato sfruttamento, non è più veramente lavoro.

Proviamo invece a pensare che le aziende ritrovino il loro legame vitale con i territori e le comunità locali: saranno sollecitate a migliorare le condizioni del lavoro e ad assumere la responsabilità sociale d'impresa nel quadro di una convergenza dei soggetti privati e di quelli pubblici nella cura del bene comune economico.

Certo, questa svolta diventa concreta se il compito di attuarle non viene scaricato sulle spalle delle singole imprese, ma viene assunto anzitutto dai governi nell'impegno a costruire efficaci regole giuridiche internazionali che consentano ovunque la scelta dell'economia della cooperazione, ripudiando il progetto della globalizzazione. In questo quadro internazionale le economie più deboli potranno organizzarsi e fiorire.

Questi e altri passi verso la guarigione dell'economia avranno luogo, con effetti profondamente benefici, se sempre più persone, comunità e istituzioni avranno la saggezza ed il coraggio di rifiutare la competizione come logica e stile di vita, preferendo piuttosto la responsabilità, l'automiglioramento e l'armonia tra interesse privato e collettivo.

La forma fisiologica di competizione che deve restare ed essere vissuta ogni giorno è quella che ogni soggetto singolo o collettivo deve affrontare in se stesso per scegliere il bene comune, la giustizia e l'umanità invece che il male.

In: DAL CAPITALISMO ALLA GIUSTIZIA. Altreconomia Edizioni. Milano, 2012

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.

sabato 13 dicembre 2014

PENSIERINI CRITICI III


A proposito di merito*
di Bruno Trentin *
Ecco il testo completo dell’ultimo articolo scritto da Bruno Trentin per l’Unità. Un’analisi storica e filosofica del concetto di merito.
La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.
Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale.
Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.
Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio.
È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.
Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.
A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia.
Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.
Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia.
Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna.
E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea.
La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione - in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria.
Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire).
Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07


PENSIERINI CRITICI II


Le idee
Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”?
Il ritorno del saggio del sociologo Michael Young

La grande ingiustizia di una società meritocratica
Roberto Esposito



“Who defines Merit?” – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti statunitensi.
Una domanda, tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche, tecniche, finanziarie.
Già posta, all’inizio della nostra tradizione, da Platone a proposito del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti, politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.
Se il merito è il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo?
Quanto, di esso, va attribuito al talento naturale e quanto all’impegno?
E come valutare il condizionamento sociale sia di chi opera sia chi giudica?
Che rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione del brillante libro del sociologo inglese Michael Young – già membro del partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali – dal titolo L’avvento della meritocrazia.
Scritto nel 1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno Unito.
Debellato il nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme della scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al merito ed alla competenza.
Tutto bene dunque?
E’ il sogno, che tutti condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti?
Bastano le pagine iniziali – che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”, contrapposti al “Partito dei tecnici” – per manifestarci, insieme a sinistri richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore.
Che è ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che egli finge di celebrare.
Sorprende che alcuni lettori, come Roger Abravanel, consigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo Meritocrazia (Garzanti, 2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena velato da qualche riserva.
Del resto, per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony Blair di aver preso in positivo un paradigma, come quello di meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali?
Essenzialmente quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle condizioni fortuite ereditate alla nascita – classe sociale, etnia, genere – che si vorrebbero non prendere in considerazione.
Certo, si sostiene, esse vanno integrate con qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura.
Ma è evidente che queste non sono indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come già sosteneva Rousseau.
E come Marx avrebbe ancora più nettamente ribadito, commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un secondo vantaggio, di tipo sociale, che già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma l’elemento ancora più apertamente distopico – tale da rendere la società meritocratica da lui descritta uno scenario da incubo – del racconto di Young è il criterio di misurazione del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q.I.).
Esso, rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo genetico diventa definibile ancora prima della nascita.
In questo modo si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo nato.
Se egli è adatto a un lavoro intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle “pecore”, il “grano” dalla “pula”.
Una volta definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il risentimento degli svantaggiati.
Essi non potranno più lamentarsi di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono.
Registrato il Q.I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una volta per tutte.
Coloro che, a differenza dei più meritevoli, passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio status e forse persino ne godranno.
A questa felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la “fede cieca nell’educazione della maggioranza”; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnico-scientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni sempre più umili.
Il risultato complessivo è la sostituzione dell’efficienza della giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.
Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano da progetto di riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione.
Il fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli “individui a lenta maturazione”, dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per questo meno degno degli altri.

LA REPUBBLICA
Venerdì 12 dicembre 2014
PENSIERINI CRITICI I



L’inganno della meritocrazia
Mauro Boarelli


La meritocrazia è sulla bocca di tutti, a destra come a sinistra. In una società come quella italiana, dove l’assenza di “merito” incancrenisce ogni articolazione della vita sociale e svilisce aspirazioni, competenze, passioni e idee, quale cittadino – indipendentemente dalle idee politiche professate – potrebbe essere pregiudizialmente ostile verso questo termine? Eppure è un termine ambiguo. Muta di senso a seconda di chi lo usa, ma al tempo stesso custodisce un insieme di significati non negoziabili che dovrebbero indurre a maneggiarlo con prudenza. Come ogni parola, anche questa non è neutrale. Va interrogata alla ricerca del senso profondo e delle sue implicazioni.
Il lavoro di decodificazione è facilitato dal fatto che, in questo caso, il vocabolo ha una paternità accertata. Fu Michael Young a utilizzarlo per primo nel 1958 nel suo libro The Rise of Meritocracy 1870-2033 (L’avvento della meritocrazia), tradotto in italiano nel 1962 dalle edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Sociologo e attivista politico inglese, autore del manifesto che nel 1945 portò al successo elettorale il partito laburista e aprì la strada al governo di Clement Attlee, Young scelse il filone della letteratura utopica (e in questo caso si tratta di un’utopia negativa) per raffigurare gli esiti nefasti provocati in modo solo apparentemente paradossale dalla volontà di abolire i privilegi della nascita e della ricchezza. La narrazione è affidata a un sociologo, entusiasta paladino della “meritocrazia” e critico ironico delle posizioni di coloro che si ostinano a frenare l’avvento definitivo del nuovo ordine. Dietro quell’ironia c’è Young, che insinua nel lettore una serie di dubbi attraverso le lenti deformanti del suo detrattore. Il racconto si snoda nel corso di un secolo e mezzo, il lungo periodo nel quale alcune riforme fondate sull’eguaglianza delle opportunità – in particolare nel campo dell’istruzione – promuovono una selezione basata esclusivamente sull’intelligenza. Uno degli assi portanti del cambiamento è rappresentato dalla misurazione precoce delle capacità, ispirata allo studio dei tempi e dei movimenti introdotto dai fautori dell’organizzazione scientifica del lavoro, a partire da Taylor. Questa metodologia selettiva trasforma gradualmente il sistema scolastico. L’istruzione non è più impartita a tutti allo stesso modo, ma viene differenziata. I bambini sono indirizzati verso scuole diverse, organizzate gerarchicamente sulla base delle capacità individuali. Gradualmente, l’aristocrazia di nascita viene sostituita dall’“aristocrazia dell’ingegno”, e la stratificazione sociale si fa ancora più netta, fino a che le tensioni create dal nuovo sistema sociale sfociano – nel 2033 – in una rivolta delle classi inferiori.
L’ordine meritocratico è fondato sulla crescita economica: “La capacità di aumentare la produzione, direttamente o indirettamente, si chiama ‘intelligenza’ (...)” (p. 173). La canalizzazione dei bambini nel sistema di istruzione è precoce e rigida, l’educazione delle intelligenze è sostituita dalla loro misurazione e classificazione: “Gli uomini (…) si distinguono non per l’eguaglianza, ma per l’ineguaglianza delle loro doti. (…) A che pro abolire le ineguaglianze nell’istruzione se non per rivelare e rendere più spiccate le ineluttabili ineguaglianze della natura?” (p. 122) E ancora: “L’assioma del pensiero moderno è che gli individui sono ineguali: e da esso discende il precetto morale che si debba dare a ciascuno una posizione nella vita proporzionata alla sua capacità” (p. 123). L’intelligenza che viene incoraggiata è un’intelligenza utilitaristica, pratica, misurabile, e questa misurazione riproduce l’organizzazione e le gerarchie del modello industriale.
Michael Young aveva scritto un libro contro la meritocrazia, si è ritrovato a essere considerato il suo teorico. Il termine da lui coniato è entrato nel vocabolario corrente e in quello politico con un’accezione positiva, ed è stato usato in modo acritico anche dalle forze politiche di sinistra. Poco prima di morire, Young affidò alle pagine di un giornale inglese una caustica lettera aperta a Tony Blair in cui accusava il leader laburista di averlo messo al centro dei suoi discorsi pubblici senza comprenderne i pericoli, e lo invitava a smettere di usarlo a sproposito (Down with Meritocracy, in “The Guardian”, 29 giugno 2001). Inutile dire che non fu ascoltato. Il progressivo capovolgimento di senso della parola da lui inventata è stato inarrestabile. Come spesso accade, questo slittamento è il risultato di una combinazione tra letture superficiali e stravolgimenti pianificati. Per cogliere questi meccanismi in azione è utile soffermarsi sul testo di Roger Abravanel intitolato Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008). Il libro è interessante non tanto per la riflessione teorica (quasi inesistente) né per le proposte (davvero deboli), ma perché presenta una efficace sintesi di tutte le argomentazioni dei sostenitori del modello meritocratico.
Abravanel non comprende la struttura narrativa del libro di Young. Vi scorge due narratori, uno “giovane ed entusiasta, che illustra i vantaggi della meritocrazia”, l’altro – che coinciderebbe con l’autore – “più vecchio e più saggio, che di tanto in tanto lancia qualche ‘siluro’ ironico” (p. 54). Forse colto (sia pure fugacemente) dal dubbio che Young non abbia scritto esattamente ciò che a lui piacerebbe leggere, inventa una scissione narrativa inesistente per sterilizzare i dubbi che emergono anche dalla lettura più superficiale del libro e confinarli nella mente di un anziano e pedante osservatore che paventa pericoli immaginari e rischia con il suo allarmismo di offuscare lo splendore della meritocrazia. Partendo da questi presupposti, Abravanel capovolge completamente le tesi del sociologo inglese, e le trasforma nel primo manifesto dell’ideologia meritocratica. La selezione precoce in ambito scolastico fondata sulla misurazione – tra gli obiettivi principali della polemica di Young – diventa uno dei fondamenti positivi del nuovo modello sociale: “Sessant’anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la ‘selezione naturale’ della società” (p. 65). Abravanel non si interroga sul fatto che la valutazione possiede una dimensione sociale e – di conseguenza – non è neutrale, come ha evidenziato Nadia Urbinati (Il merito e l’uguaglianza, in “la Repubblica”, 27 novembre 2008). Aggira il problema liquidando in poche righe – con lo stile apodittico che caratterizza il libro – l’intero patrimonio della riflessione pedagogica internazionale a favore di teorie pseudoscientifiche riassunte con approssimazione e delle quali non cita quasi mai la fonte, per indirizzarsi con sicurezza verso una conclusione estremamente chiara (e cinica) dal punto di vista ideologico: “(…) ricerche approfondite evidenziano come la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offra un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni” (p. 83). In fondo è questo il succo del ragionamento dei “meritocratici”: la crescita economica come unico metro di giudizio (senza alcun interrogativo sulle componenti immateriali di tale crescita e sulla necessità di altri parametri di valutazione del benessere sociale), e il premio economico alla classe dirigente, ovvero ai depositari del merito. Il collante è, inevitabilmente, il mercato: “La società meritocratica è profondamente basata sugli incentivi per gli individui a competere, che sono l’essenza del libero mercato” (p. 67). Inutile rimarcare che ancora una volta il “libero mercato” viene usato come feticcio senza riflettere sulla sua esistenza reale e sulle conseguenze sociali derivanti da questa costruzione ideologica. Su un punto, però, l’autore si esprime con candida sincerità, senza troppi giri di parole: “Nelle società meritocratiche la diseguaglianza è giustificata dall’ideologia della meritocrazia (…)” (p. 62). E ancora: “(…) nelle società meritocratiche la disuguaglianza sociale conta molto meno della mobilità sociale” (p. 109). Da qui a teorizzare la necessità di un sistema educativo diseguale il passo è breve: “In genere si ritiene che per assicurare eguaglianza di opportunità bisogna dare a tutti la stessa qualità di istruzione (…). Questo luogo comune è profondamente errato: dando a tutti la stessa educazione non si aumenta la mobilità sociale e il merito muore” (p. 256). Di conseguenza, “(…) è necessario passare dall’Istruzione all’Educazione, da ‘istruire tutti allo stesso modo’ a ‘educare secondo il potenziale di ciascuno’, dall’eguaglianza del livello di istruzione alle pari opportunità nel ricevere la migliore educazione” (p. 314).
I ragionamenti di Abravanel e quelli dell’anonimo narratore di Rise of Meritocracy si sovrappongono perfettamente. Young aveva visto giusto, le sue non erano solo fantasie. Soprattutto, aveva intuito che le argomentazioni dei fautori della meritocrazia puntano diritto al cuore della democrazia. “La meritocrazia è (…) l’esatta antitesi della democrazia”, scriveva Cesare Mannucci nella prefazione all’edizione italiana del libro di Young, perché la scuola gerarchica su cui è fondato quel modello non è immaginata per insegnare la pluralità di culture e valori, ma per anticipare e inculcare le stratificazioni del sistema produttivo e finalizzare il sapere allo sviluppo economico. è un nodo esplorato anche da Bruno Trentin, che in un denso e lucido articolo (A proposito di merito, in “l’Unità”, 13 luglio 2006) evidenziava come il concetto di merito sia sinonimo di obbedienza e dovere, perché presuppone una legittimazione discrezionale da parte di qualcuno che occupa una posizione gerarchica superiore, o esercita un potere politico. Criticando duramente la subalternità culturale della sinistra verso un concetto proprio del liberismo autoritario e la confusione dei linguaggi che ne discende, Trentin rivendicava il primato della conoscenza sul merito. Solo il sapere rappresenta un criterio equo di selezione del valore individuale, e quindi occorre renderlo disponibile per tutti. In questo modo ciascun individuo sarà in grado di governare il proprio lavoro. è una prospettiva che concilia libertà e conoscenza, e lo fa per tutti, non solo per una ristretta élite tecnocratica.
Eguaglianza e democrazia. Ecco cosa mette in gioco il concetto di meritocrazia. Non esprime il riscatto dall’ineguaglianza delle opportunità, ma il suo contrario. Non si tratta di una sterile disquisizione lessicale. Meritocrazia è una parola densa di implicazioni sociali, una parola che traccia un discrimine e impone di scegliere da che parte stare, senza giocare sulle ambiguità, senza camminare sul filo dei mille significati possibili laddove ce ne sono in realtà ben pochi, chiari, coerenti, connotati ideologicamente e perfettamente riconoscibili.

LO STRANIERO
n. 118 – Aprile 2010


lunedì 17 novembre 2014

CULTURA E RESILIENZA
29 novembre 2014
Auditorium Santa Margherita

Campo Santa Margherita, Dorsoduro 3689 - Venezia
Il Servizio Disabilità e DSA, con il Patrocinio del Comune di Venezia, dell'Azienda U.L.S.S. 12 Veneziana e di Fondazione Radio Magica Onlus, organizza il convegno "Cultura e Resilienza". Un dibattito interdisciplinare su come la Cultura sia uno strumento per affrontare le avversità.

Programma della giornata
9.00 Registrazione partecipanti
9.30 Saluti istituzionali
Michele Bugliesi, Rettore Università Ca' Foscari Venezia
9.40 Ascolto e letteratura: il valore delle storie
Elena Rocco, Docente Università Ca' Foscari Venezia e Segretario Generale Fondazione Radio Magica Onlus, e Pia Masiero, Docente Università Ca' Foscari e Direttrice di Incorci di Civiltà
10.00 Resilienza: il potere della vulnerabilità
Paola Milani, Docente Università degli Studi di Padova
10.45 Conversando con Lella Costa
Lella Costa, Attrice e Scrittrice e Marco Ius, Ricercatore Università degli Studi di Padova
11.15 L'esperienza di uno studente: Silvio Battaglia
Testimonianze
11.45 L'educazione possibile: tra biologia e cultura
Vittorino Andreoli, Psichiatra e Scrittore
12.30 Dibattito e scenari futuri
Alle ore 15.00 sarà possibile effettuare una visita guidata gratuita, negli spazi di Palazzo Rota Ivancich, alla mostra itinerante "Re del Tempo" con la curatrice Chiara Casarin.

Modalità di partecipazione al convegno
Per partecipare è gradita l'iscrizione on-line. Per prenotare clicca qui.
Ai partecipanti al convegno verrà rilasciato un attestato di frequenza.
Servizi per utenti con disabilità
Saranno a disposizione degli utenti con disabilità vari servizi. Qualora interessati, si prega di farne richiesta entro il 20 novembre 2014 direttamente al Servizio Disabilità (e-mail disabilita@unive.it).

Per informazioni
Ufficio Orientamento, Stage e Placement
Servizio Disabilità e DSA
Tel 041 2347961/7936/7968
Fax 041 2347946
e-mail disabilita@unive.it